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LUCCA – “Eccomi, sono Lorella Cuccarini!”, scherza Marco D’Amore entrando nel Cinema Astra, giubbotto e cappellino di lana calato sulle tempie, mentre fuori la pioggia non smette di cadere. D’Amore è davanti a una platea di ragazzi e ragazze per una masterclass, un incontro pubblico in cui un attore dovrebbe raccontare come si fa a diventare così, uno dei più amati del piccolo (ma anche grande) schermo. Lui, però, precisa subito: “Io non ho nulla da insegnarvi”, dice, “quello che posso fare è raccontarvi il breve percorso che ho fatto per arrivare fin qui. Se questo può aiutare, sono qui, a disposizione…”.

Naturalmente sta recitando. Dice una bugia. Perché se è vero che la carriera di un attore è eterna, perché si dice che non si smette mai di imparare e perché le opere e i personaggi vivono in chi le guarda, a 38 anni D’Amore ha già alle spalle quasi un quarto di secolo di recitazione. “Non credo nelle folgorazioni sulla via di Damasco, non credo a chi dice ‘sono nato per fare l’attore’. Io ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente famigliare fertile.

Sia i miei genitori che i miei nonni frequentavano i cinema, il teatro, erano grandi lettori e devo a loro la passione per tutto questo. Fin da piccolo ho cominciato a suonare, recitavo a scuola, mi dicevano, sei bravo. Avevo 15 anni. Ma sono gli incontri che mi hanno davvero cambiato la vita. A 16 anni ho firmato il mio primo contratto professionale e lo devo a Tony Servillo, che non era quello del Divo ma un grandissimo regista che portava avanti un discorso teatrale molto personale, ma che era ancora uno sconosciuto. A 18 anni mi vide in uno spettacolo e mi scelse per una sua produzione: gli devo moltissimo”.

Poi, c’è il rischio. Un bivio di quelli cui ci si trova spesso davanti e che si decide di affrontare nel modo più inaspettato. Magari scegliendo la via più tortuosa e quella meno scontata. Più pericolosa. “A quel tempo lasciai l’università, partii per due anni di tournée e feci la prima importante scelta: la gavetta teatrale. Il mio è stato un percorso di sacrifici, ho abdicato a gran parte della mia vita per fare questo mestiere”. Quando parla, D’Amore prende la cosa con grande serietà.

Non è solo il fatto di trovarsi di fronte a dei giovanissimi che, chissà, potrebbero scegliere la sua stessa strada. Per lui il “mestiere” dell’attore è qualcosa di sacro: “Sento montare della violenza, dentro di me, quando vedo questo mestiere inquinato”, dice con la voce ferma. “I francesi usano la parola ‘jouer’ e gli inglesi ‘play’ per definire l’atto di recitare perché tutto questo ha a che fare con il gioco ma non con lo scherzo. Il gioco è una cosa seria: abbiamo un ministro della cultura, attualmente, (Alberto Bonisoli, dal primo giugno scorso ministro dei beni e delle attività culturali nel governo Giuseppe Conte, ndr),

che afferma che ‘anche il Grande Fratello e i cinepanettoni sono cultura'”. Si alzano delle risate dal pubblico. D’Amore lo incalza subito: “Il fatto che si rida di questa affermazione, invece che inorridire, è drammatico, significa che il problema è molto grave. È assolutamente necessario che ci sia una linea di demarcazione, netta, tra l’intrattenimento e la cultura. L’intrattenimento può essere altissimo, all’estero ci sono teatri dove si fa ricerca e prosa, qui invece, vedi cartelloni di ogni tipo e non si capisce nulla… non è vero che il Grande Fratello è cultura e non è neppure intrattenimento… è subcultura”.

D’Amore ne ha anche per chi ha la possibilità di produrre film e per chi si trasforma in una pedina nelle loro mani: “La responsabilità che ciascuno di noi dovrebbe avere, ciò che dovrebbe raccontarsi quando fa questo mestiere, è alta. Io cerco di arare e seminare cultura. Per quella che è la mia formazione, e per mio gusto, vedo oggi una nuova generazione di professionisti a fronte di vent’anni in cui c’è stato un dilettantismo dilagante. Lì c’è stata una grande irresponsabilità da parte di chi riempiva le storie non di attori ma di semplici ‘cartonati’.

La tv deve prendersi la responsabilità di formare dei professionisti: questo è un mestiere difficilissimo. Quando Stefano Sollima mi ha scelto per interpretare Ciro, io ho preso l’impegno come se stessi per recitare Otello. Ciro ha una profondità che gli permette di essere concepito alla sua stregua. A differenza di chi pensa che non ci siamo posti dei problemi etici o morali nel mettere in scena personaggi come lui, voglio dire che eravamo coscienti di mettere le mani nel dolore delle persone. Le loro vicende sono la somma di vicende reali, dei mali peggiori di questo Paese. Sapevo,

personalmente, che uno come Ciro rappresentava chi ha lasciato ferite insanabili. Ma sapevo anche che questa serie non voleva fare alcuna morale; come altre opere artistiche aveva invece il dovere di scuotere e di far riflettere. Ma non si può chiedere a un film o a un libro di avere delle risposte. Piuttosto bisognerebbe pretendere che faccia scaturire delle domande, che ponga delle questioni”.
Prima dell’incontro pubblico, sull’Altana della Camera di Commercio che domina la città, incontriamo Marco D’Amore. Qualcuno, forse scherzando, dice che da qualche parte c’è un vassoio di babà. Non indagheremo oltre: Ciro è arrivato e non è il caso di farlo aspettare.

Ciro è morto ma Ciro è qui. Cosa succede dopo? Alla fine è veramente ‘Immortale’.
“Secondo me questa immortalità è molto più interessante osservarla dal punto di vista degli spettatori perché credo che il sogno, neanche tanto nascosto, di qualsiasi interprete o artista sia quello di rimanere nella memoria. Quindi io mi immagino, forse con un pizzico di vanità, che questa immortalità stia a significare che il personaggio ha lasciato un segno in chi ne ha osservato le gesta. Quella sarebbe per me la cosa più importante”.

I fan sono rimasti sconvolti dall’uccisione di Ciro nella passata edizione di Gomorra. Le critiche per questa scelta non sono mancate. Credi siano servite in qualche modo a far nascere uno spin off, Immortale, a lui dedicato?
“Io, rispetto alla scomparsa di Ciro, attesto un merito da sempre alla serie, cioè quello di avere avuto la forza, il coraggio e la capacità di rinunciare nel tempo a tutti i suoi più grandi protagonisti, non solo a lui. Penso alla scomparsa del personaggio di Pietro Savastano, a Donna Imma, a Salvatore Conte. E Gomorra credo sia l’unica, davvero l’unica serie al mondo che riesce a fare questo, ad affrontare delle perdite così grandi. Poi, rispetto al racconto di una possibilità, lì c’è un progetto che ha molto più a che fare con la produzione della serie che con me. È sicuramente un desiderio che è mutuato anche da certe aspettative del pubblico. Vediamo che succederà… il futuro, come diceva De Gregori, è ‘una palla di cannone accesa e noi la stiamo quasi raggiungendo’”.

Cosa si racconterà nel film prequel incentrato sul tuo personaggio? Perché Ciro è diventato quello che è?
“Ti posso dire che sto scoprendo con te quello di cui parlerà questo spin off, perché è un progetto che sta in un’orbita di possibilità ma non di certezze. Quando e se maturerà la volontà di farlo capiremo di che cosa raccontare. Io non so nulla…”, ride.

Ora hai un duplice ruolo: sei anche regista, ci sei tu dietro la macchina da presa di alcuni episodi di Gomorra 4. Come hai imparato il mestiere?
“Secondo me non l’ho imparato. Nel senso che è l’inizio di un lunghissimo percorso. Vent’anni di carriera mi hanno messo fortunatamente alle prese con tanti film e una serie che mi ha concesso di stare sul set per sei anni della mia vita. Così il mio interesse è sempre stato più verso ciò che si nascondeva dietro la macchina da presa, cioè verso il regista, con i suoi collaboratori, piuttosto che soltanto rivolto al set e alla messinscena. Lì ho fatto il mio apprendistato. Ma ci tengo a dirlo: questa della regia non è assolutamente una scelta estemporanea. È una tappa di un percorso ancora molto lungo”.

Fonte https://www.repubblica.it/robinson/2018/11/02/news/marco_d_amore_-210628464/

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